“Era solenne scendere a valle per quel fiume tranquillo, stesi sulla schiena a guardare su le stelle e non si aveva molta voglia di parlare forte… Il tempo era splendido, e durante quella notte non capita niente, né la notte dopo, né quella dopo ancora”.
Non “l’alto mare aperto” di Dante nel canto di Ulisse, ma il fiume Mississippi in Le avventure di Huckleberry Finn. Dopo tanti anni, mi sembra ancora di vedere il capanno nascosto tra gli alberi, sentire la zattera che scivola silenziosa sulla corrente.
Credo di aver divorato il capolavoro di Mark Twain in dosi superiori al massimo consentito ad una ragazzina.
Tra tanti libri, Huck è diventato subito il mio eroe.
Uno che dorme in una botte, racconta bugie, fuma, ruba, ammazza i serpenti. Si finge morto per sfuggire al padre ubriacone, odia la scuola e la vedova bigotta che lo obbliga a lavarsi e vestirsi.
Un ribelle. Sempre a caccia di libertà, in una terra di schiavi.
Avevo già letto Le avventure di Tom Sawyer. Niente a che vedere. Il primo, le storie le inventava. Il secondo, le viveva davvero. E io con lui.
Sul grande fiume americano credo di aver contratto un virus. Diciamo che ho fatto varicella, pertosse, morbillo e orecchioni, tutti insieme. Ma più che vaccinarmi, mi sono ammalata.
Ho amato così tanto quel libro e il suo protagonista, che ancora adesso, a distanza di anni, non saprei dire se mi abbia più spinto a scrivere o a vivere.
Per i critici Sawyer sarebbe l’alter-ego dello scrittore, mentre Finn ciò che fu prima di diventare famoso. Pilota di fiume, cercatore d’oro, umorista. E giornalista, come me.
Medicine non ce ne sono.
Torno nella botte o mi butto nel Mississippi?
I.V.